« Quod scripsi, scripsi » (Giovanni 19, 22) |
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In filosofia il fatalismo è la concezione che considera le vicende del mondo governate da un destino predeterminato, già stabilito.
È spesso usato nel senso di determinismo.
Il fato può essere vissuto come provvidenziale, tramite la fede che un ordine cosmico detto Logos presieda alla vita di tutti i giorni.
In questo caso si è disposti ad accettare passivamente il corso degli eventi senza tentare di modificare lo status quo.
Ma esiste pure un fatalismo ritenuto esiziale, rovinoso, funesto, illogico, disordinato e perciò indegno di fede/fiducia.
Anzi: il fato nasce con un valore negativo nell'epica e nella tragedia greche, da Omero a Sofocle, e anche nella primissima filosofia, dal frammento di Anassimandro a Eraclito, da Empedocle all'antiteodicea di Epicuro.
Miti come quello delle Moire indicano che persino gli dèi subiscono un determinismo esterno concernente il decorso della Storia.
Il fatalismo positivo d'un Logos provvidenziale è invece proposto dallo stoicismo greco e romano.
La cultura latina presenta un esempio di fatalismo con Marco Manilio (I secolo a.e.v - I secolo e.v), il quale, nel suo scritto Astronomica, fa trasparire lievemente ed in forma velata la sua concezione fatalistica basata sull'esistenza di un Logos inteso anche come Demiurgo della realtà che ci circonda.
Una forma piuttosto diversa di fatalismo è proposta anche dalla dottrina cristiana della Divina Provvidenza.
Tuttavia pure la tradizione biblica presenta una componente storiosofica ad elevatissimo tasso di predeterminismo:il millenarismo con la settimana cosmica e il settemillenarismo.
In Nietzsche fatalismo e fiducia sono le caratteristiche del "pessimismo coraggioso", eroicamente titanico, dell'Oltreuomo (Übermensch), che in sostanza è una sintesi del "pessimismo cosmico" dello Schopenhauer neobuddhista e di Leopardi, e dell'ottimismo antifatalistico emersoniano del saggio "Fato".
Il fato, secondo Nietzsche, ripropone ciclicamente le stesse situazioni, in conformità con il modello zoroastriano dell'eterno ritorno; non è dunque possibile interpretare la vita, illudendosi di potere agire su di essa, ma bisogna accettarla con la semplicità d'un fanciullo.
All'uomo superiore Nietzsche attribuisce un'adesione
incondizionata al proprio destino, l'amor fati,
variante neospinoziana dell'amor crucis cristiano.
Anche in Heidegger spunta spesso l'idea d'un abbandono alla metafisica dell'Essere come Tempo e dunque un'analoga accondiscendenza e arrendevolezza: il termine da lui usato per designare tale abbandono proviene dalla mistica renano-fiamminga ed è Gelassenheit, titolo d'un suo testo del 1959.
Invece, e forse inaspettatamente, nel pensiero dell'ultimo Hegel spunta una drastica dissociazione fra il pantragismo e il pangiustificazionismo come patodicea e/o teodicea.
Nella famosa sezione dedicata all'"astuzia della ragione", nella Introduzione alle Lezioni sulla filosofia della storia, egli approda a un netto distinguo fra:
Rimane solo l'essere parassitati strumentalmente dal male: "spirito", sì, però comunque fatalismo antiprovvidenziale, esiziale, negativo, maligno.
Con ciò viene rigettata ogni identificazione intenzionale delle coscienze individuali nei confronti d'una simile mostruosa progettazione e architettura del decorso storico.[1]
Oltre al fatalismo dei summenzionati filosofi della religione, esiste anche un fatalismo materialistico, immanente, bottom-up poiché risultante dall'imprevedibile evolversi dei vincoli e delle possibilità nel susseguirsi degli eventi cosmici. Il riferimento è all'epistemologia dell'emergentismo,[2] ma pure a ciò che Ernst Bloch ha definito "sinistra aristotelica", vale a dire al rapporto nell'ontologia di Aristotelefra atto e potenza, ossia a quanto esiste come "tendenza-latenza" nella materia.[3][4][5]